Democrazia Diretta

Questi fotogrammi li ho estratti da un documentario ("I granai del popolo" dell'archivio Luce http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoPlayer.jsp?tipologia=&id=&physDoc=4254&db=cinematograficoDOCUMENTARI&findIt=false&low&section=/)
girato all'indomani della formazione del primo vero governo dell'Italia liberata, ovvero il secondo governo Badoglio, qualche mese dopo la caduta del fascismo. A quel governo parteciparono, per la prima volta dopo il ventennio, i disciolti partiti antifascisti. Ogni parte di queste foto è, a mio avviso, ben studiata e profondamente pensata prima di arrivare nei pochi cinema dell'Italia liberata (il Nord restava da liberare ed era in atto la Resistenza armata al nazifascismo). Cosa noto in queste foto:
Prima di tutto il documentario non è stato girato dentro un municipio (esautorati dalla democrazia e non più credibili), ma fuori in mezzo ad un'aia o una piazza con intorno immagini di luoghi in costruzione, pezzi di mobili accumulati in un angolo; si vede addirittura una gallina razzolare, una delle persone attorno al tavolo è seduta su quella che sembra una botte. C'è un signore con un bambino in braccio, quello seduto sulla botte è una persona anziana, c'è un altro anziano, sempre accanto al prete, ma anche uno che sembra un nuovo leader a capotavola, due signori vestiti bene e il prete all'altro capo della tavola e poi il carabiniere con la sua cartella sul tavolo. Non c'è una donna. I bicchieri d'acqua segno di una seduta non breve. Lavoratori, cittadini di un'Italia ideale, ma concreta, vicina alla realtà, povera certo, ma orgogliosamente libera e creativa.
Il significato è chiaro, si stava costruendo qualcosa di nuovo, di nettamente e radicalmente diverso dal passato fascista. Dovevano mostrare agli americani e all'Europa intera un nuovo modello di governo locale per "far vedere" cosa sapevano fare i democratici della prima zona che gli alleati liberavano. Quello che cattolici, antichi liberali e giovani azionisti, comunisti e socialisti mostravano era idealmente vicino a quello che i loro sogni ideologici volevano costruire. Un modo come dire: si riparte da qui!
Quell'inizio e quello spirito, non lo ritroveremo mai più.

domenica 30 dicembre 2007

Le cupe o i castagni secolari

"Quasta lettera non è stata pubblicata"
Sono davvero felice che la Gazzetta del Sud promuova e valorizzi attraverso una lunga serie di articoli i nostri meravigliosi castagni presilani. Fino a ieri le iniziative in questo senso a Marzi , in questi giorni si è aggiunto altro castagno secolare a Carpanzano. Sono originario di Pedace e anche in quel territorio sono molti i castagni di grandezza eccezionale. In dialetto pedacese questi grandi alberi centenari li chiamiamo "cupe". Molti sono stati innestati in epoche remotissime e presentano un enorme e particolarissimo bozzo ingrossato all'altezza dell'innesto, altri sono addirittura in fila. La montagna che si presenta di fronte al paese di Pedace è ricca di questi esemplari, credo, pari a quanti ce ne sono a Marzi, o a Carpanzano, ma ritengo che castagni similari ce ne siano anche nella Presila catanzarese (Decollatura, Soveria, Tiriolo, ecc), o nel territorio di Acri, ad Aprigliano e in tutto il resto della Presila. Bene hanno fatto gli amministratori di Marzi e della Comunità Montana del Savuto a proporre, innanzitutto, un censimento di questi giganti e altrettanto bene ha fatto Pippo Callipo a sostenere la promozione diquesto nostro bene.
Mi permetto solo di aggiungere una osservazione: oltre ai castagni quello che va tutelato, ma soprattutto identificato è il "paesaggio Presilano" nell'ambito della legge regionale sul paesaggio. Intendendo per paesaggio non solo il "panorama" ma la Storia dei luoghi. Questi castagni sono il simbolo più evidente di questo nostro paesaggio, non originario, ma adattato da epoche remotissime alle esigenze economiche degli uomini perciò parte integrante della nostra Storia e delle nostre tradizioni. Insomma, non solo importantissime rarità botaniche, ma qualcosa di più profondo: rappresentano la Cultura delle genti della Presila. Altri popoli, con altre sensibilità, hanno notato questi alberi già due secoli fa. In alcuni quadri di pittori Francesi dell'ottocento (forse al seguito delle armate di Napoleone) si vedono spuntare i briganti da quelle "cupe".

La fiction su Rino Gaetano

A “Il Quotidiano della Calabria” (che non ha pubblicato)
Anch’io sono rimasto colpito negativamente dalla fiction su Rino Gaetano. La più bella delle sue poesie/canzoni, ignorata dall’autore della fiction e citata da Vito Teti sabato su Il Quotidiano: A me piace il Sud, ci regala l’intensità di un paesaggio bello e struggente e una strofa ripetuta che parla anche del film: “ma come fare non so, sì devo dirlo ma a chi, se mai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me”. Colui che doveva capire quel paesaggio, quella canzone e quella bellezza non è stato il regista o autore della fiction, non è stato “un altro come me”.
Queste frasi poetiche rappresentano, la voglia d’impegno, l’angoscia di non vedere soggetti politici che riuscissero a interpretare e capire tanta bellezza e tanto bisogno di “conservare”, di proteggere, di valorizzare il nostro mondo e i nostri paesaggi.
Volevo scrivere di questa canzone e delle suggestioni che crea quando Renato Nicolini e il sociologo Osvaldo Pieroni hanno redatto la legge sul paesaggio e ragionare delle responsabilità che Rino Gaetano metteva sulle loro spalle. Anche quando scellerati, potenti e ricchi volevano costruire un grande Acqua Park alla foce del Neto, proprio tra i suoi/nostri “fichi d’india e le spine dei cardi” Rino Gaetano e la sua canzone erano una risposta autorevole e profonda che avrei voluto dare.
Rino, come tutti noi in quegli anni di piombo, aveva bene in testa la dimensione della politica e dell’impegno nel sociale e non trovava, come tutti noi, quel soggetto (soprattutto politico) capace di capire la complessità della nostra generazione, di ciò che era bello, di quello che andava buttato via e di quello che andava salvaguardato del nostro personale background e del mondo che abbiamo vissuto e che inesorabilmente scompariva.
La canzone parla di quello struggimento e di quanto Rino fosse profondamente calabrese, esprime quel “richiamo della foresta” che anch’io come tanti calabresi o migranti meridionali di tutto il mondo, abbiamo sentito. Come quando dovevo scegliere se continuare a vivere a Firenze (“la città più bella del mondo” per dirla citando il film dei Taviani) o ritornare a vivere, peggio, ma nella complessità e bellezza di questa terra.
La fiction forse lascia intuire il suo bisogno di impegno, soprattutto politico, che non ha soddisfatto. Ma, ha ragione Teti, lascia sospeso nel nulla il legame di Rino con la comunità che lui sentiva come propria e che ha ispirato alcune delle sue canzoni più belle.
Per concludere e ripetermi . Rino, con la strofa citata prima, ci chiede uno sforzo interpretativo, ci implora di capire e di conservare, ci incita a riconoscere il bello, ci spinge ad un’azione politica che parte dal bisogno di guardare dentro noi stessi e di valorizzare quello che siamo, nulla di più.
E questo il film non l’ha proprio capito. Peppino Curcio