Democrazia Diretta

Questi fotogrammi li ho estratti da un documentario ("I granai del popolo" dell'archivio Luce http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoPlayer.jsp?tipologia=&id=&physDoc=4254&db=cinematograficoDOCUMENTARI&findIt=false&low&section=/)
girato all'indomani della formazione del primo vero governo dell'Italia liberata, ovvero il secondo governo Badoglio, qualche mese dopo la caduta del fascismo. A quel governo parteciparono, per la prima volta dopo il ventennio, i disciolti partiti antifascisti. Ogni parte di queste foto è, a mio avviso, ben studiata e profondamente pensata prima di arrivare nei pochi cinema dell'Italia liberata (il Nord restava da liberare ed era in atto la Resistenza armata al nazifascismo). Cosa noto in queste foto:
Prima di tutto il documentario non è stato girato dentro un municipio (esautorati dalla democrazia e non più credibili), ma fuori in mezzo ad un'aia o una piazza con intorno immagini di luoghi in costruzione, pezzi di mobili accumulati in un angolo; si vede addirittura una gallina razzolare, una delle persone attorno al tavolo è seduta su quella che sembra una botte. C'è un signore con un bambino in braccio, quello seduto sulla botte è una persona anziana, c'è un altro anziano, sempre accanto al prete, ma anche uno che sembra un nuovo leader a capotavola, due signori vestiti bene e il prete all'altro capo della tavola e poi il carabiniere con la sua cartella sul tavolo. Non c'è una donna. I bicchieri d'acqua segno di una seduta non breve. Lavoratori, cittadini di un'Italia ideale, ma concreta, vicina alla realtà, povera certo, ma orgogliosamente libera e creativa.
Il significato è chiaro, si stava costruendo qualcosa di nuovo, di nettamente e radicalmente diverso dal passato fascista. Dovevano mostrare agli americani e all'Europa intera un nuovo modello di governo locale per "far vedere" cosa sapevano fare i democratici della prima zona che gli alleati liberavano. Quello che cattolici, antichi liberali e giovani azionisti, comunisti e socialisti mostravano era idealmente vicino a quello che i loro sogni ideologici volevano costruire. Un modo come dire: si riparte da qui!
Quell'inizio e quello spirito, non lo ritroveremo mai più.

mercoledì 6 dicembre 2023

Piccola mia biografia

Mi hanno chiesto al CAI una mia biografia breve ad un incontro sul brigantaggio.

Condizionato da un padre ingombrante (Cesare Curcio), che non ho conosciuto perché morto quando avevo 2 anni, ho creduto di emularlo facendo dell’impegno civico e politico un tratto della mia personalità e del mio modo di stare tra gli altri.

Come mio padre impegnato nei movimenti collettivi per l’occupazione delle terre in Sila, nel mio piccolo ho partecipato a diversi movimenti collettivi a cominciare da quelli studenteschi, ma anche per i diritti delle persone disabili.

Dopo la laurea in scienze politiche conseguita a Firenze, conseguita mentre il mio impegno civico era intenso anche in quella città, ho aderito a Cittadinanzattiva, l’organizzazione che aveva al suo interno i Tribunali per i diritti del malato. Un impegno costante e intenso, diventato una vera e propria impresa sociale, durato fino al 2000. Il lavoro consisteva nella gestione di un servizio di intervento e tutela per i diritti del malato chiamato PIT (Progetto Integrato di Tutela) che agiva in relazione stretta con gli URP (Uffici per le relazioni con il pubblico) delle aziende sanitarie calabresi e coinvolgeva tutte le associazioni di malati o di cittadini organizzati per la tutela della salute, presenti nel territorio calabrese.
Assieme a questo impegno nella sanità mi sono interessato anche di partecipazione civica nei comuni con specifiche ricerche e sono stato attivo protagonista di iniziative per istituire le primarie per la scelta dei candidati alle elezioni, per l’elezione diretta del difensore civico, per il sistema maggioritario, ho partecipato a movimenti ambientalisti e di cittadini per la chiusura di discariche inquinanti, contro il nucleare e la tutela dell’ambiente, non ho mai cessato di partecipare a movimenti per la lotta al superamento dell’handicap, ho dato vita presso una struttura di accoglienza diurna per malati di mente all'Associazione Pazza Idea
.
Dal 2004 al 2009, circa, ho lavorato al Centro Servizi per il Volontariato dove trovarono utile le mie capacità relazionali e di intervento nel territorio a fianco alle associazioni di volontariato.
Nel 2010 ho scritto il libro Ciccilla. Storia della brigantessa Maria Oliverio del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva. Da allora non ho mai smesso di fare ricerche sul brigantaggio nel casali di Cosenza e nel 2017 ho scritto con Paolo Rizzuti “Briganti Casalini” che prosegue la storia di Ciccilla e cerca di scoprire chi furono le vittime del fenomeno del brigantaggio.
Dal 2000 inizia un altro impegno costante: la cura di Pratopiano. Un territorio ricco di storia legato alla vicenda di mio padre e, contemporaneamente, caro anche a mio zio Pietro D’Ambrosio che ritrovò nelle sue ricerche archivistiche proprio a Pratopiano le tracce di due importanti briganti, Pietro Monaco e sua moglie Maria Oliverio alias Ciccilla.
L’impegno inizia con la creazione di un parco giochi per ragazzi subito trasformato in una base scout, proprio perché gli scout fanno dell’esplorazione la loro mission.
L’avvicinamento al CAI è stato consequenziale a queste esplorazioni che troppo spesso diventavano sentieri per valorizzare luoghi e storie.
Ho partecipato al Movimento per la fusione dei comuni di Casali del Manco e mi sono anche candidato a sindaco, sono risultato eletto consigliere e in questo ruolo ho dato il mio contributo nella definizione dello Statuto comunale.
Mi sono dimesso da consigliere dopo che il comune, nel DUP, ha dichiarato il suo impegno per la valorizzazione di Pratopiano ritenendolo in conflitto con i miei interessi privati
Nel 2018 ho partecipato al corso per diventare guida CAI.
Nota finale: è mia la definizione di sentiero nello Statuto comunale (art. 6 comma 4)
“[Il Comune] Considera il sentiero come mezzo per la valorizzazione del paesaggio. Promuove e valorizza la straordinaria rete dei sentieri presenti nel proprio territorio.”

lunedì 3 luglio 2023

 

Il ricordo di una occupazione delle terre nel 1936, sotto il regime fascista

Di Peppino Curcio

 

Con l’Associazione Prometeo 88 inseguivamo la memoria di uno dei fenomeni più diffusi e importanti delle nostre comunità casaline per farne un film: le occupazioni delle terre. Cercavamo, perciò, le persone più anziane che ne avessero memoria. La mia vicina di casa Dora Iazzolino era tra queste. Ho avuto subito questa opportunità di chiederle come avvenivano questi forti momenti di lotta che si perdono nei secoli. Forse immutati.

Poi, come spesso accade quel progetto non si portò avanti, rimase sulla carta e non si trasferì mai su pellicola come avremmo voluto.

 

Se quel film non si potrà più realizzare, vorrei, comunque, rendere pubblica la storia che Dora mi ha raccontato, intercalandola con le sue risa, battute semiserie, improvvisi scatti di serio orgoglio pedacese e le vive emozioni quando il ricordo dei momenti più intensi gli riempivano di lacrime i suoi occhi azzurri.

La domanda iniziale era semplice, le chiesi se avesse partecipato a qualche occupazione delle terre in Sila e come avvenivano.

Mi aspettavo un racconto del dopoguerra e invece ricordò una straordinaria occupazione di terre in Sila che avvenne durante il fascismo negli anni quando lei era ancora una bambina.

Fu un momento che anche mio padre ricorda in alcuni suoi appunti.

 

1936 aprile-maggio. Bisognava fare qualcosa per i contadini in Sila per la terra delle patate. Una riunione clandestina in montagna. Dopo giorni si seppe che io l’avevo presenziata.

Arrestato quindi tre mesi per rottura ammonizione e per aver oltrepassato il limite territoriale del mio comune senza il permesso.

In quell’anno i contadini fecero la più grande manifestazione sotto il fascismo per l’occupazione delle terre. Interventi di tutte le autorità. Vittoria soddisfacente. Erano capeggiati da un loro sindacalista, contadino, Matteo Nicoletti, oggi compagno e attivista.

 

In quegli anni l’attività politica di mio padre pur se clandestina era sempre viva soprattutto tra i contadini. Infiltrarsi tra le maglie delle corporazioni contadine fasciste era anche una precisa politica del Partito Comunista clandestino.

A guidare i sindacati contadini fascisti c'era, come scrive mio padre, Matteo Nicoletti, suo cugino e vicino a Pratopiano (aveva in fitto i terreni della parrocchia). Mio padre scrive che partecipò alle riunioni organizzative (nonostante fosse perseguitato) e che queste occupazioni ebbero successo. Negli archivi romani trovai le relazioni dei Prefetti che confermavano quelle agitazioni contadine e che quelle terre a usi civici, prima negate, furono poi regolarmente assegnate.

Ma Dora come d'incanto trasformava quelle carte e quel linguaggio burocratico in carne viva, in Storia.

Mi raccontò che partì di notte e con altre famiglie pedacesi, la mia compresa. C’erano i capifamiglia, le mogli e i figli provenienti da ogni “vicinanzo” di Pedace: dello Spiconello, dei Suttani, della Parrera, della Iotta, del Timpariellu, delle Barracche. Il loro bagaglio, con quel poco che avevano da mangiare, era portato dai loro asini assieme agli arnesi da lavoro.

Doveva essere un lungo corteo che attraversava l’intera nostra montagna. Probabilmente le terre a usi civici erano quelle intorno a Moccone per questo, forse, si risaliva da Serra e poco più avanti si univano con i contadini provenienti da Spezzano.

Immagino ci fosse anche la mia famiglia allargata, guidata da mio nonno e dai numerosi figli del fratello Luigi rimasti a quel tempo orfani. Mio padre, sorvegliato speciale di polizia, non poteva permettersi di partecipare, pena l’immediato arresto.

Dora racconta che arrivati sui terreni da occupare, quando era appena giorno, trovarono i carabinieri già schierati a difesa di quelle terre che non erano riconosciute come “comuni”. C'era tutta la comunità.

C’era sicuramente memoria delle occupazioni di terre avvenute pochi anni prima, nel 1925, a San Giovanni e alla strage di contadini che ne seguì. Doveva esserci molta paura. C’era la consapevolezza che si stava sfidando il regime fascista a quel tempo fortissimo e con grande consenso e legittimità.

Mi disse che fu lei con altri bambini a sfidare quelle guardie armate, da soli e per primi, invasero i terreni e quel limite invalicabile. Vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime e un suo scatto come a scacciare un’emozione troppo forte. E la paura di quei bimbi doveva essere grande.

Poi seguirono le mamme che con altrettanta paura e cautela si misero davanti e a protezione di quelle anime innocenti.

Non ci fu reazione alcuna da parte dei carabinieri, solo allora avanzarono gli uomini e le donne armati di zappe e vanghe.

Le chiesi infine … e i tamburi? C’erano i tamburi? Mi guardò negli occhi, spalancò i suoi vistosi occhi azzurri invasi dalle lacrime, alzò le sue sopracciglia e abbassò la testa con un gesto di conferma che era insieme orgoglioso e scontato. Come se quel suono fragoroso sia stato, per lei bambina, il momento liberatorio e la fine della paura fino a quel momento attenuata solo dalle braccia della madre.

lunedì 2 settembre 2013

giovedì 4 aprile 2013

Tutte le immagini di Maria Oliverio alias Ciccilla

Queste tutte le immagini conosciute di Ciccilla. Per chi ha voglia di conoscere una sintesi del mio libro su Maria Oliverio alias Ciccilla può leggerlo su wikipedia: questa è quella che tutti conoscono quest'altra, secondo alcuni, è una brigantessa campana, ma se si confrontano gli abiti e gli oggetti con la prima foto si nota che è solo un'altra posa di una foto scattata nello stesso momento dalla seconda foto è stata copiata questa litografia pubblicata sul libro di Luigi Stocchi foto di Ciccilla tratta dall'Archivio Alinari di Firenze. La stessa foto è nell'archivo di Cesare Lombroso a Torino. Si tratta di Ciccilla???? La foto probabilmente è stata scattata a Torino. questo dipinto di Ciccilla è stato pubblicato su una rivista francese alla fine del 1800. e questi sono coloro che perseguitarono lei e la banda Monaco: Il Prefetto Guicciardi e altri non identificati

sabato 30 marzo 2013

partecipazione e amore

Ama - il - prossimo tuo - come te stesso. Ho sempre riflettuto su questa frase, per l'ordine dato ai singoli termini e per il loro significato. Ama: è il verbo con il significato più profondo per un uomo. In principio era il Verbo, dicono i credenti. Il tempo scelto è l'imperativo, e l'imperativo non ha prima persona, è un ordine non rivolto a se stessi, ma agli altri. Non solo, il soggetto è spesso sottinteso o viene sempre dopo il verbo, come a sottolinearne la maggior valenza. Il prossimo tuo. Il: è un articolo determinativo vuole indicare qualcuno di preciso non "un" prossimo qualsiasi, ma una persona in carne ed ossa. Prossimo: è proprio quello che incontreremo nella nostra strada oggi, adesso. Colui che un istante fa mi ha scritto su fb ed era insonne quanto me, mia moglie che sta scendendo a prendere il caffè, il vicino che vedrò sotto casa, il rumeno che abita di fronte e che mi saluta schivo. Tuo: ribadisce (se ancora non l'avessi capito) che non si tratta del prossimo di una comunità o del prossimo di una filosofia di vita, ma è proprio materialmente il prossimo uomo o donna che io incontro. Come se stessi ... e qui la frase si fa capolavoro. Come se si ricominciasse da capo, come una pellicola che torna indietro. Come presuppone qualcosa che sapevi già, che viene prima e che serve da termine di paragone e il termine di paragone siamo sempre noi e l'amore che abbiamo naturalmente, e ovviamente, per noi stessi. Come dire l'amore verso gli altri è un concetto che arriva dalla razionalità, dopo aver conosciuto la spontaneo bene per noi stessi. Dobbiamo amare gli altri come noi stessi e non più di noi stessi. Come se la frase mettesse anche un limite: non si possono amare gli altri più di noi stessi, perché sarebbe una contraddizione e una negazione del bene che vogliamo a noi stessi. Se pensiamo a questa frase applicata al concetto di democrazia è come se questa frase dicesse: ... prima di dire che la partecipazione civica è il principio della convivenza civile, mettila alla prova, e chiedi innanzitutto che le tue opinioni valgano quanto quelle degli altri.

sabato 26 febbraio 2011

Dal sito Katciu-Martel.it

“Pratopiano” è un progetto volto alla valorizzazione di un paesaggio, quello presilano, in Calabria, che nella località Prato Piano, posto nella valle solcata dal fiume Jumiciellu, un sub affluente del Crati, concentra una serie di microstorie e di caratteristiche peculiari.

Il libro che ho appena finito di scrivere, Ciccilla. Storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva, dell’editore Pellegrini, è l’occasione per far conoscere questo sogno/progetto da 10 anni in via di realizzazione.

Pratopiano è nel comune di Pedace, Casale di Cosenza, le cui origini - come il suo nome e il simbolo che lo rappresenta, un piede - rimandano agli antichi Bretti, poi denominati Bruzi dai Romani, che si insediarono nelle valli lungo gli affluenti del Crati (vedi Gabriele Barrio in De antiquitate et situ Calabriae, testo del 1571). I Bruzi erano dediti all’agricoltura nelle parti pianeggianti o ricche d’acqua, alla pastorizia e allo sfruttamento delle risorse dei boschi, ovvero, si spostavano dentro un territorio che era loro, dove “mettevano i loro piedi”. Quindi il piede come segno di egemonia. Non a caso, infatti, l’altro significato di Pedace, che lo fa derivare da pedaggio, riconduce ad un significato analogo.

Sono stati tutti i Casali dei bruzi a dare vita all’antica Consentia, poi Cosenza, che continuerà ad avere una storia di strettissima simbiosi con i suoi casali.

Pratopiano è uno dei luoghi dove queste popolazioni per secoli trovarono la risorsa intorno alla quale sostenere l’intera comunità: il castagno. Con il frutto del castagno si fa il pane e si allevano animali, le castagne trasformate potevano essere vendute e scambiate. Con i polloni dei castagni si costruiscono cesti robusti, con il legno case e pagliai resistenti alle intemperie.

Il legno del castagno, trasformato in carbone con una tecnica millenaria, è utilizzato come combustibile ideale per le forge, in quanto fa raggiungere al ferro la temperatura consona a modellarlo. Pedace, secondo Vincenzo Padula, per secoli è stato il paese dei coltellai. Significativamente nella sua descrizione delle produzioni peculiari del luogo aggiunge al termine coltelli diversi punti esclamativi per indicarne l’abbondanza.

Pratopiano conserva ancora le caselle dove si trasformavano le castagne in castagne secche. Il termine casella non è dialettale. Sull’antico vocabolario del Tommaseo (consultabile su internet) il termine è riportato con il significato di torre di castagnai (infatti turra è un altro sinonimo dialettale con il quale si identificano queste costruzioni). In altri luoghi d’Italia sono chiamate metato (Toscana ed Emilia) o teccio in Liguria e immagino che le terminologie siano diverse nel Mediterraneo alle stesse latitudini, in tutti quei luoghi che condividono la stessa cultura. Alcune caselle sono miracolosamente funzionanti, centinaia hanno funzionato fino alla metà degli anni 60, poi mano mano sono state abbandonate, le intemperie hanno fatto il resto.
Da Pratopiano passa una mulattiera, noi “indigeni” la chiamiamo carrera. E’ come un lungo solco dentro la montagna, ancora per lunghi tratti distinguibile, che dalla confluenza del fiume Jumiciellu con il Cardone porta fino al Parco della Sila, alle vette di Timpone Tenna e Timpone Bruno dove, in mezzo, sorge il Crati (Kratos in greco vuol dire potere, forza, autorità), il fiume simbolo della nostra millenaria identità culturale, che sfocia nel Mar Ionio, lì dove nacque la più opulenta delle città greche, Sybaris.
A Pratopiano ci sono decine di cupe, ovvero gli alberi monumentali di castagno, concavi all’interno e che resistono incrollabili al tempo, spettacolari, alcuni superano gli otto metri di circonferenza a petto d’uomo.
Ci sono i resti di un’antica carcara, una costruzione circolare dove, forse, venivano cotte le pietre che servivano per la produzione della calce. L’abbandono degli ultimi decenni ha poi prodotto una incredibile biodiversità: aceri, acacie, salici, ontani, pioppi, noci, querce, pini, abeti, si mischiano con i castagni, i meli, i peri, i pruni, i ciliegi, i sorbi.
Poi ci sono gli animali selvatici, pochi a dire il vero e perseguitati dai numerosi cacciatori. Tra gli uccelli il picchio, “katciu martel”, il vostro significativo simbolo. La presenza di alberi cavi dove trovare insetti e dove costruire i loro tipici nidi li rende particolarmente numerosi. C’è il picchio verde (in dialetto picune), il picchio rosso maggiore, il picchio muratore e il piccolo rampichino.
Ma il paesaggio è anche la storia di un luogo con gli uomini che dentro questo paesaggio sono vissuti o sono passati rimanendone colpiti e influenzati.
L’abate Gioacchino da Fiore, nato in uno di questi casali, a Celico, influenzò non solo la mente degli uomini di queste contrade. Ai rudi contadini bruzi, in pieno medioevo, Gioacchino insegnò a sognare un mondo migliore, il paradiso da costruire sulla terra.
Venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo, così in terra … Queste parole, con questo significato, sarebbero state le stesse senza Gioacchino?
Intorno al 1200 decise di stabilire su questi monti la sua ultima dimora, acquistò persino un mulino a Pedace. Morì il 30 marzo del 1202, a Canale di Pietrafitta, a un’ora di cammino da Prato Piano. E, forse, doveva sembrargli proprio un paradiso questo angolo di Calabria, per quei tempi ricco e particolarmente salubre.
I terreni di Prato Piano e dintorni sono stati oggetto di usi civici, ovvero di ataviche rivendicazioni di diritti dei contadini. Presso l’Archivio di Stato di Cosenza si conservano gli atti di diversi processi che durarono per l’intero XIX secolo.
Nella valle del Jumiciellu la banda dei briganti descritta dal libro prima citato, commise diversi reati e in fondo al fiume, proprio a Pratopiano, il capo Pietro Monaco trovò la morte ad opera dei suoi compagni più fidati. Per non dilungarmi troppo rinvio al mio libro per spiegare l’interesse che ebbe Alessandro Dumas verso questi luoghi e questo personaggio, tanto da dedicargli un racconto di 7 capitoli ritrovato sulle pagine del giornale che diresse , “L’Indipendente”, nel Marzo del 1864.
I sogni di Gioacchino, lo spirito guerriero bruzio di tanti terribili briganti, le rivendicazioni di diritti e gli ideali di redenzione umana (così Fausto Gullo chiama gli ideali comunisti sull’epitaffio a mio padre) del XX secolo, divennero una miscela positiva per formare il nostro retroterra culturale.
Il fascismo non attecchì tra le nostre genti, particolarmente a Pedace. La Resistenza lunga (per usare le parole di Luigi Longo), l’antifascismo militante, trovò tra queste contrade consenso e sostegno. Tanto consenso da riuscire a nascondere, con la solidarietà e la complicità di decine di contadini, nel marzo del 1943 fino a luglio, in un momento di particolare stretta del regime che stava per finire i suoi giorni, l’antifascista Pietro Ingrao, il quale ricorda nel suo libro Volevo la luna, i giorni passati a Prato Piano e quanto sia servito alla sua formazione politica il contatto con questo paesaggio e con la tranquilla operosità di Zu Peppinu (mio nonno).
Pratopiano vorrebbe diventare un ecomuseo, un luogo della memoria di tutto quanto ho scritto e di tanto altro che c’è da scoprire e da scrivere. L’opposto di ciò che è effimero, che dura un giorno. Qualcosa che sia per sempre. Prima per trasmettere tutto ai nostri figli e poi per far apprezzare agli altri la nostra innata e sacra ospitalità.
Per sostenere questo progetto è nata una base scout. Perché gli scout hanno nel loro dna i valori della scoperta e dell’esplorazione, perché gli scout vivono a contatto con la natura, ospiti che apprezzano particolarmente il senso profondo del paesaggio che calpestano.

lunedì 26 aprile 2010




Una storia dimenticata ricostruita a ricordo di mio padre

di Peppino Curcio



Per un figlio è difficile scrivere del proprio padre senza incorrere nella retorica e nell’autocelebrazione.
Cesare Curcio fu un comunista.
Quando pronuncio questa parola ho come l’impressione che da questo rigo in poi le persone che continuano a leggere siano poche. Come se la Storia dei comunisti fosse una storia marginale e solo di una parte politica, che riguarda “loro” e non il resto dei cittadini.
La microstoria che voglio raccontare per ricordare mio padre, invece, riguarda tutti. Riguarda il sentimento di democrazia di un popolo e di una città. Riguarda sorpattutto la fine vera del fascismo, non quella delle date sui libri di storia, ma quella che si legge nel sentimento della gente, nel sentire di una comunità.
Nelle righe del racconto che segue, ricostruito a fatica attraverso i ricordi diretti dei protagonisti ancora in vita (1), vorrei riuscire a comunicare non solo un pezzo di Storia di una parte politica. Vorrei che la celebrazione dei 100 anni dalla nascita di Cesare Curcio sia ricordata da tutti quelli che amano la democrazia e la libertà.
L’immediato dopoguerra è un periodo colmo di conflitti certamente laceranti e che hanno diviso profondamente gli animi e le coscienze. Credo sia necessario guardare con distacco a questi eventi che sono, nel bene e nel male, alla base del nostro senso civico e che hanno costituito le fondamenta della nostra democrazia.
La storia comincia alla fine di settembre del 1944 a Camigliatello, in Sila, quando gli americani con le loro enormi macchine “affettavano” o sradicavano i nostri grandi pini per prenderseli come bottino di guerra.
Il Nord Italia era in guerra. Cassino era caduta da qualche mese e le armate tedesche si attestavano sulla linea gotica dell’Appennino tosco emiliano. L’Italia liberata era governata dal governo Badoglio formato dai rappresentanti di tutti i partiti, comunisti compresi. In quel Governo c’erano due ministri cosentini, Fausto Gullo e Pietro Mancini.
Un gruppo di 14 operai forestali della Presila, che lavoravano per gli americani nei cantieri forestali di Camigliatello, chiese degli impermeabili per proteggersi dalle intemperie. A quel tempo la guerra aveva completamente impoverito quei lavoratori e anche l’acquisto di un impermeabile era proibitivo. Gli americani promisero la fornitura di questi indumenti, ma il tempo passava, il freddo e la pioggia della Sila non davano tregua e le promesse non riscaldano. I 14 uomini decisero spontaneamente di non recarsi al lavoro, per protesta. Ne discussero tra loro in uno dei vagoni di quei lunghi treni che portavano questi lavoratori dai paesini della Presila fino in Sila .
Non tennero conto delle possibili conseguenze per quella che era, forse, una delle prime proteste operaie dell’Italia liberata. Lo sciopero non era ancora contemplato come un diritto e nemmeno la protesta.
Gli operai vennero quasi tutti individuati dai soldati americani nelle vie di Camigliatello e della vicina Moccone e costretti a salire su una loro camionetta. Li arrestarono tutti, tranne due. Furono rinchiusi in un seminterrato di una baracca di legno che fungeva da caserma dei carabinieri. La sorveglianza non era stretta tanto che togliendo le tavole di legno male inchiodate potevano uscire durante la notte senza chiedere permesso. Ma non fuggirono, si fidavano.
La mattina successiva gli operai furono interrogati brevemente dal Comando Alleato e, subito dopo, nella stessa mattinata furono trasportati nel carcere di Colle Triglio a Cosenza.
Lì rimasero un mese in attesa del processo. Sotto le finestre del carcere ci furono delle manifestazioni per protestare contro questi arresti ingiustificati che tradivano lo spirito del tempo e contraddicevano il percorso che si era avviato per portare l’Italia verso un regime democratico. Il 30 ottobre del 1944 si tenne il processo. Luigi Gullo difese gli operai con un’arringa memorabile. Ma a nulla valse. Il giudice condannò quegli operai.
Mio padre era un semplice spettatore. Nell’udire la sentenza ebbe un moto di rabbia e, mentre il pubblico abbandonava l’aula del processo, ad alta voce disse:
“Questa Corte è ancora fascista, operai che protestano per i loro diritti non possono essere condannati”(2)
All’udire questa frase il giudice gridò verso il pubblico: “Chi è stato a parlare”.
Mio padre, spontaneamente, alzò subito la mano e avvicinandosi alla Corte disse: ”Sono stato io”. Quel giudice incrociò lo sguardo di mio padre e lo riconobbe.
Uno degli operai arrestati, allora diciassettenne, colse il dialogo tra i due.
“Ancora tu” disse il magistrato,
Mio padre annuì e mostrò sprezzante le cicatrici sulle sue dita che gli erano rimaste a ricordo delle torture subite nel maggio del 1932.
Quel giudice, probabilmente, era lo stesso magistrasto (forse il Procuratore del Regno - attuale Pubblico Ministero) che faceva parte della Commissione per il Confino e che giudicò mio padre insieme con altri 70 antifascisti dopo che alcuni di loro furono torturati.
Per quella condanna mio padre perse il suo lavoro di meccanico della sua officina per camion. Nel 1933 insieme a mio padre furono torturati nello stesso momento Gennaro Sarcone e Francesco Sicilia di Rogliano, Antonio Sicoli di Celico, Aladino Burza di Cosenza e Eduardo Zumpano di Spezzano Piccolo (3) (vi furono altri torturati, ma di questi non si hanno fonti certe ma solo racconti tramandati oralmente). Scudisci, bracieri ardenti, tenaglie, e ganci sul soffitto erano gli strumenti delle torture oltre alle privazioni dei bisogni elementari come quelle del sonno e dell’acqua.
Estorsero loro, dopo dieci giorni di durissimi supplizi, gli altri nomi. I fascisti vollero sapere dove erano nascosti il materiale propagandistico, una bandiera rossa, un ciclostile, le macchine da scrivere, i libri, insomma, in due parole, le loro idee.
Il giudice si sentì offeso e oltraggiato, ma tentennò ad iniziare un processo per direttissima. Luigi Gullo intervenne nel dialogo tra mio padre e il giudice e riuscì a convincere il magistrato a rinviare il processo al giorno dopo.
Ma di nuovo intervenne mio padre: “Adesso voglio essere giudicato, subito”, disse.
E così avvenne. Fu condannato per direttissima a ben un anno di reclusione.
La notizia si diffuse immediatamente. Le littorine che da Cosenza tornavano in Presila portavano la notizia. C’era incredulità.
Un mio parente, vicino di casa, fu visto piangere disperato perché toccava a lui portare la notizia ai genitori di quell’unico figlio, e a quella povera e numerosa famiglia (oltre ai genitori Cesare Curcio viveva insieme ad una zia e a cinque cugini) tormentata dal fascismo e in quei giorni felice di poter professare in libertà le proprie idee politiche.
Poi la rabbia montò. Era una piovosa e fredda giornata d’autunno, nel tardo pomeriggio, quando tutti tornarono dal lavoro, ebbero appena il tempo di passarsi la voce. Tutti a Cosenza davanti a Colle Triglio.
Di notte, sotto la pioggia, avvolti da scuri mantelli neri, al canto cupo di “Fischia il Vento”, la canzone dei partigiani, con in testa le bandiere rosse dei rinati partiti, migliaia di persone scesero a piedi fino in città da ogni paese della Presila, e si unirono alle migliaia di persone che erano già a Cosenza provenienti dal resto dell’Interland e dalla città.
Testimoni oculari ricordano che la piazza antistante l’allora Palazzo di Giustizia di Colle Triglio era piena di gente anche Corso Plebiscito e le due strade laterali che discendono dal Colle erano colme. Cosenza non aveva mai visto prima di allora una manifestazione spontanea così grande.
La gente premeva alle porte del carcere. Volevano liberarlo. Mio padre all’interno della cella si rese conto della gravità della situazione. Udiva le grida e aveva capito che i militari di guardia si preparavano a ricevere quella folla con le armi spianate. Gridò a sua volta all’indirizzo della direzione del carcere. “Fatemi parlare con loro, li calmo io” gridò molte volte. Alla fine lo accontentarono e poté parlare.
L’On. Gino Picciotto, suo compagno di partito, ricorda lucidamente quest’episodio che riportò su un giornale dell’epoca al momento della sua morte.
Mio padre disse a tutti un’amara bugia: “Tornate a casa, non vi preoccupate tanto domani mi liberano”. Obbedirono e solo così Cosenza non ebbe bisogno di ricordare quella notte. Non ci furono morti, né feriti.
Cesare Curcio scontò, invece, otto mesi di galera. Tanti quanti ne scontò al confino di Ponza, ma quello non era un atto persecutorio, era una vacanza, come ha detto qualche tempo fa il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
Il carcere fascista invece lo aveva vissuto altre sei volte prima di allora:
1. 8 giorni nel 1926 (nel carcere di Spezzano Sila) per attività clandestina, fu arrestato insieme a Fausto Gullo, Luigi Prato e altri; questi ultimi inviati anch’essi in villeggiatura a Nuoro;
2. 32 giorni nel 1928 (nelle carceri di Cosenza) per aver distribuito stampa clandestina;
3. 8 giorni nel 1930 (sempre a Colle Triglio) perché si sposava il Principe Umberto (grazie Sire, ce ne ricorderemo);
4. 60 giorni nel 1932 (prima di essere inviato al confino) compreso anche un periodo di convalescenza passata in ospedale per guarire dalle ferite;
5. 3 mesi nel 1936 (forse nel carcere di Poggioreale a Napoli) per aver presenziato una riunione clandestina di contadini che in seguito fecero, come lui stesso ricorda, “la più grande manifestazione sotto il Fascismo per l’occupazione delle terre”;
6. 42 giorni nel 1938, perché erano apparse delle scritte su alcuni muri di Serrapedace (“Abbasso il Fascismo” e falce e martello) e fu ritenuto il mandante, condannato per “sospetto di rottura d’Ammonizione”.
Se si sommano tutti i periodi di carcere non si arriva ad otto mesi. L’antifascista Cesare Curcio per aver commesso il reato di manifestare le proprie idee, passò più tempo nelle galere del neonato stato democratico che non sotto il fascismo.
Il giorno successivo, primo novembre del 1944, si riunì il Comitato di Liberazione Nazionale e protestò formalmente per gli arresti di quegli operai (4) e per quello di mio padre, fu indetta anche una manifestazione dentro ad un cinema per il giorno successivo, ma a nulla valse . Probabilmente (non si hanno notizie certe al riguardo) in quella occasione le due anime del PCI si scontrarono duramente: l’anima rivoluzionaria e ribellista (con alla testa Natino Lacamera che era il membro del PCI nel CLN di Cosenza) voleva agire con un atto di forza. L’anima democratica capiva la delicatezza del momento e voleva calmare gli animi, come esemplarmente fece mio padre, e accettare la decisione della magistratura di uno Stato nascente di cui comunque, nel bene e nel male, i comunisti erano una componente.
Una canzone dialettale dedicata a mio padre ha colto quel momento in una strofa:

No pecchì ca simu forti
Aperiamu chille porte
Ppe la favuce e llu martiellu
Lli ccè gire llu cerviellu

Eravamo forti e potevamo aprire le porte del carcere, ma gli ideali della falce e martello erano ormai altri non più quelli della rivoluzione violenta.
Mio padre passò otto lunghi mesi al secondo piano dell’attuale Palazzo Arnone.
A nulla valsero gli interventi del suo amico e compagno Ministro Fausto Gullo e probabilmente anche gli interventi di Pietro Mancini. Uscì dopo la lunga detenzione, probabilmente, in seguito all’intervento di Palmiro Togliatti, Ministro della Giustizia del Governo Parri.
Quando uscì dalla galera da lì a poco ci fu uno dei primi congressi del PCI che si teneva nell’attuale Cinema Modernissimo (allora Supercinema). Al tavolo della presidenza c’era Pietro Secchia in rappresentanza della Segreteria nazionale del PCI. Mio padre entrò come tutti da una porta laterale mentre iniziavano gli interventi.
Subito lo riconobbero e tutti, istintivamente, senza alcun annuncio dal palco degli oratori, si alzarono in piedi e lo applaudirono a lungo.

(1) Dai racconti di Silvio Lecce già Sindaco di Spezzano Sila e Salvatore Cava pedacese, oggi emigrato a Milano. (Pedace, estate 2004)
(2) Questa frase è quella che ricorda mio padre nelle sue memorie. (Fondo Cesare Curcio, Atti della mostra documentaria su “Antifascismo e lotta dei contadini per la terra in Presila”, Pedace, 2004)
(3) Fondo Cesare Curcio, Atti della Commissione per l’Epurazione.
(4) Fondo Cesare Curcio, Dai Verbali del CLN della Provincia di Cosenza.