Il ricordo di una occupazione delle
terre nel 1936, sotto il regime fascista
Di Peppino Curcio
Con l’Associazione
Prometeo 88 inseguivamo la memoria di uno dei fenomeni più diffusi e importanti
delle nostre comunità casaline per farne un film: le occupazioni delle terre.
Cercavamo, perciò, le persone più anziane che ne avessero memoria. La mia
vicina di casa Dora Iazzolino era tra queste. Ho avuto subito questa
opportunità di chiederle come avvenivano questi forti momenti di lotta che si
perdono nei secoli. Forse immutati.
Poi, come spesso
accade quel progetto non si portò avanti, rimase sulla carta e non si trasferì
mai su pellicola come avremmo voluto.
Se quel film non si potrà
più realizzare, vorrei, comunque, rendere pubblica la storia che Dora mi ha
raccontato, intercalandola con le sue risa, battute semiserie, improvvisi
scatti di serio orgoglio pedacese e le vive emozioni quando il ricordo dei
momenti più intensi gli riempivano di lacrime i suoi occhi azzurri.
La domanda iniziale
era semplice, le chiesi se avesse partecipato a qualche occupazione delle terre
in Sila e come avvenivano.
Mi aspettavo un
racconto del dopoguerra e invece ricordò una straordinaria occupazione di terre
in Sila che avvenne durante il fascismo negli anni quando lei era ancora una
bambina.
Fu un momento che
anche mio padre ricorda in alcuni suoi appunti.
1936 aprile-maggio.
Bisognava fare qualcosa per i contadini in Sila per la terra delle patate. Una
riunione clandestina in montagna. Dopo giorni si seppe che io l’avevo presenziata.
Arrestato quindi tre
mesi per rottura ammonizione e per aver oltrepassato il limite territoriale del
mio comune senza il permesso.
In quell’anno i
contadini fecero la più grande manifestazione sotto il fascismo per
l’occupazione delle terre. Interventi di tutte le autorità. Vittoria
soddisfacente. Erano capeggiati da un loro sindacalista, contadino, Matteo
Nicoletti, oggi compagno e attivista.
In quegli anni
l’attività politica di mio padre pur se clandestina era sempre viva soprattutto
tra i contadini. Infiltrarsi tra le maglie delle corporazioni contadine
fasciste era anche una precisa politica del Partito Comunista clandestino.
A guidare i sindacati
contadini fascisti c'era, come scrive mio padre, Matteo Nicoletti, suo cugino e
vicino a Pratopiano (aveva in fitto i terreni della parrocchia). Mio padre
scrive che partecipò alle riunioni organizzative (nonostante fosse
perseguitato) e che queste occupazioni ebbero successo. Negli archivi romani
trovai le relazioni dei Prefetti che confermavano quelle agitazioni contadine e
che quelle terre a usi civici, prima negate, furono poi regolarmente assegnate.
Ma Dora come d'incanto
trasformava quelle carte e quel linguaggio burocratico in carne viva, in
Storia.
Mi raccontò che partì
di notte e con altre famiglie pedacesi, la mia compresa. C’erano i capifamiglia,
le mogli e i figli provenienti da ogni “vicinanzo” di Pedace: dello Spiconello,
dei Suttani, della Parrera, della Iotta, del Timpariellu, delle Barracche. Il
loro bagaglio, con quel poco che avevano da mangiare, era portato dai loro
asini assieme agli arnesi da lavoro.
Doveva essere un lungo
corteo che attraversava l’intera nostra montagna. Probabilmente le terre a usi
civici erano quelle intorno a Moccone per questo, forse, si risaliva da Serra e
poco più avanti si univano con i contadini provenienti da Spezzano.
Immagino ci fosse
anche la mia famiglia allargata, guidata da mio nonno e dai numerosi figli del
fratello Luigi rimasti a quel tempo orfani. Mio padre, sorvegliato speciale di
polizia, non poteva permettersi di partecipare, pena l’immediato arresto.
Dora racconta che
arrivati sui terreni da occupare, quando era appena giorno, trovarono i
carabinieri già schierati a difesa di quelle terre che non erano riconosciute
come “comuni”. C'era tutta la comunità.
C’era sicuramente
memoria delle occupazioni di terre avvenute pochi anni prima, nel 1925, a San
Giovanni e alla strage di contadini che ne seguì. Doveva esserci molta paura.
C’era la consapevolezza che si stava sfidando il regime fascista a quel tempo
fortissimo e con grande consenso e legittimità.
Mi disse che fu lei
con altri bambini a sfidare quelle guardie armate, da soli e per primi,
invasero i terreni e quel limite invalicabile. Vidi i suoi occhi riempirsi di
lacrime e un suo scatto come a scacciare un’emozione troppo forte. E la paura
di quei bimbi doveva essere grande.
Poi seguirono le mamme
che con altrettanta paura e cautela si misero davanti e a protezione di quelle
anime innocenti.
Non ci fu reazione
alcuna da parte dei carabinieri, solo allora avanzarono gli uomini e le donne
armati di zappe e vanghe.
Le chiesi infine … e i
tamburi? C’erano i tamburi? Mi guardò negli occhi, spalancò i suoi vistosi
occhi azzurri invasi dalle lacrime, alzò le sue sopracciglia e abbassò la testa
con un gesto di conferma che era insieme orgoglioso e scontato. Come se quel
suono fragoroso sia stato, per lei bambina, il momento liberatorio e la fine
della paura fino a quel momento attenuata solo dalle braccia della madre.